AL MIO VENTESIMO COMPLEANNO MI HANNO REGALATO LA PAURA

Avere vent'anni oggi significa, almeno per me, avere paura. Paura del presente, paura del futuro, paura di aver fatto la scelta universitaria sbagliata, paura di non trovare lavoro, paura di vivere in un paese così vecchio che è in grado solo di dipingermi come una sfaticata perditempo. Se qualcuno mi chiedesse come mi sento davvero, nel posto più profondo della mia anima, gli risponderei che ho così tanta paura che a volte sento un peso opprimermi il petto e ho difficoltà a respirare a pieni polmoni.
Abbiamo fatto i conti con una pandemia che ha mietuto una quantità di vittime tali che ci viene difficile anche figurarcele. E, senza rendercene conto, è più di un decennio che combattiamo contro una crisi economica così potente che il nostro mondo non è quello che hanno conosciuto, e distrutto, i nostri genitori.
La loro generazione è stata quella che ha beneficiato di più del boom economico post secondo dopoguerra, sono stati in grado di arrivare a posti dirigenziali con diplomi o addirittura con la licenza media, i pochi laureati erano apostrofati come i dottori e hanno preso il pianeta e l'hanno calpestato come meglio sono riusciti fino ad accartocciarlo del tutto e a gettarselo alle spalle incuranti di cosa avrebbero lasciato ai propri figli.
E tocca a noi fare i conti con tutto questo, mentre, dall'alto dei loro pulpiti digitali, ci additano come i nativi digitali, la generazione che non è più in grado di vivere senza tecnologia. Eppure, loro sono quelli che hanno colonizzato un social network nato per i giovani con le loro foto dei buongiorno e dei caffè, l'hanno infettato con le loro teorie complottiste e l'hanno avvelenato con le loro frecce al vetriolo contro i millennial e la generazione Z, colpevoli di essere dipendenti da una droga da loro stessi sintetizzata e senza la quale abbiamo vissuto per troppo poco.
Ed è facile guardarci annegare nell'instabilità a cui ci hanno condannato e fare di noi i capri espiatori di quasi tutte le colpe di questo mondo. Se non è colpa nostra è responsabilità degli immigrati, dei neri, degli zingari o di chiunque non sia di etnia caucasica. E quindi mentre mi muovo a tentoni cercando di capire il mondo, sento che esso mi si liquefa sotto i piedi e mi tira giù con lui. Nel buio della mia mente mi chiedo se riuscirò mai ad arrivare, dall'alto dei miei diplomi e delle mie lauree future, dove i miei sono arrivati con le loro licenze medie. Mi chiedo se riuscirò a realizzare le mie aspirazioni o se continuerò ad essere additata come una persona che ha sprecato le sue potenzialità solo perché, nonostante gli ottimi risultati scolastici, ha deciso di non iscriversi né a medicina né a ingegneria, che, dalle labbra degli ignoranti, sembrano essere le due sole facoltà abilitanti alla stima e all'orgoglio. Qualsiasi altro corso di laurea è inferiore e meno utile per la società.
Come se dietro alle pubblicità che ci spingono al consumismo più sfrenato non ci siano laureati in marketing, comunicazione, grafica; come se ogni oggetto a cui mettiamo mano non sia stato prima accuratamente pensato, progettato e realizzato da designer professionisti; come se i laureati in scienze dei beni culturali, moda, lettere, filosofia, storia non avessero alcuna utilità nell'ingranaggio complessivo della macchina sociale, come se la cultura, di cui il nostro paese è pregno, fosse inutile.
E sono stanca di avere paura, di non riuscire a godermi il presente perché sono troppo impegnata a pensare al futuro, a studiare per il futuro, a piangere per il futuro, a preoccuparmi per l'instabilità del mio futuro. Ho il diritto e il dovere di vivere a pieno il presente anche se troppo spesso me ne dimentico.